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Nove Mesi D'estate - Isobel Blackthorn

Nove Mesi D'estate - Isobel Blackthorn

Traduzione di Luisa Ercolano

Nove Mesi D'estate - Isobel Blackthorn

Estratto del libro

Le concavità nel tappeto a pelo lungo indicavano il punto cui aveva poggiato le gambe dei mobili un tempo presenti. Le pareti, spoglie, erano tinte di un insipido color pesca. C’era un leggero odore di vernice acrilica. Serrandosi dentro, si chiuse la porta della camera da letto alle spalle, l'eco di schiaffi che giungeva beffardo, un clamore di voci recriminanti.

Non si sarebbe mai innamorata dei ‘dovrei’.

Quello era un santuario. Una stanza per conservare il passato. Una stanza minuscola, che allora sembrava ancora più piccola con tutto quel disordine. L'ultima volta che Yvette era stata lì, una parete era occupata da un armadio in tek e una cassettiera in melamina bianca. Un letto singolo occupava l'intera lunghezza dell'altra. Sopra il letto era appesa una stampa stravagante di una ragazza con un vestito marrone malandato, in piedi su una strada acciottolata sotto un cielo grigio industriale, circondata su entrambi i lati da case vittoriane a schiera dalla facciata piatta che si ritirano fino a un punto dietro di lei. Quella stampa era appesa in tutte le camere da letto della sua infanzia. La cassettiera era coperta di manufatti. Il vaso sgargiante che aveva comprato un anno per il compleanno di sua madre. Il portagioie rosa con la ballerina di plastica che ancora volteggiava tremante sulle note di Per Elisa quando apriva il coperchio. Un soddisfatto Snoopy sdraiato in cima alla sua cuccia salvadanaio. La sveglia dalla faccia generosa che sua madre le aveva regalato a dieci anni e che lei aveva caricato così tanto che non aveva più fatto tic-tac e da allora era rimasta bloccata tra le otto e le nove. Yvette si era vergognata troppo per dirglielo.

Una lama di luce solare tagliò le sbarre di tessuto beige della finestra e le ferì gli occhi. Si sollevò dal letto e scostò la tenda.

La finestra era rivolta a nord-est, protetta dal sole intenso dell'estate dal fogliame di una betulla argentata. Non aveva dubbi che sua madre avesse allineato gli angoli per essere sicura. La luce frizzante del primo mattino brillava attraverso i rami, ora spogli d'inverno, creando un disegno a filigrana sull'erba bruciata dal gelo. Due pappagalli, vivaci e acuti, si lisciavano le piume su uno dei rami inferiori. La betulla si trovava in un giardino ordinato di prato tosato e aiuole di rose. Punteggiate qua e là c'erano grevillee e scovolini, tutte pulite e ordinate. Sua madre aveva una predilezione per i rossi, rossi maestosi, tradizionali e ricchi. Avrebbe dovuto esserci la topiaria. Siepi di bosso e cascate di glicine. E steccati bianchi. Invece il giardino era circondato da filo spinato teso tra pali di eucalipto rosso, elettrificato per tenere fuori il bestiame. Al di là, c'era uno sfondo di paddock ondulati punteggiati di maestosi eucalipti rossi. L'intera valle abbracciata da una poltrona di montagne boscose. Un paradiso bucolico, degno delle pennellate di Alfred Sisley.

L'aria era calma. La rugiada scintillava su una ragnatela appesa sotto la veranda. Il gracchiare in crescendo di un kookaburra ruppe il silenzio.

Costringendosi ad affrontare la giornata, si tirò in testa un maglione rosso largo e si infilò i jeans taglia 38 che indossava da adolescente. Stentava a credere che sua madre avesse conservato i suoi vecchi vestiti. Ma ne era grata. Non possedeva altro che la manciata di parei e vestiti estivi che aveva infilato nella sua borsa da viaggio blu cobalto quando aveva lasciato Malta, aspra e secca, per l'umida e feconda Bali. La stessa borsa da viaggio blu cobalto che aveva usato per portare le sue cose a casa di Carlos. Il suo amato Carlos. Non sopportava di guardare la borsa. L'aveva infilata dietro alcune scatole di scarpe in fondo all'armadio appena arrivata.

Dov'era lui ora? Ancora a Bali? Stava tornando a Malta? Senza dubbio sbavava guardando il sedere di ogni hostess sul volo.

Si sedette sul bordo del letto senza sentire i jeans stretti contro la pancia. Non erano quelli che chiudeva con il gancio di una gruccia? Era magra, un fuscello, sicura di vagare qua e là, trascinandosi dietro il cuore come un'anatra di plastica sbattuta su ruote di legno cigolanti.

Sentendo un rumore di piatti, chiuse la porta ai suoi malumori e si diresse verso la cucina.

La presenza di sua madre permeava tutta la casa prefabbricata a pianta aperta. Era nella suite in tre pezzi, nel focolare e nel tavolo da pranzo di pino, così ben lucidato che il riflesso del sole mattutino abbagliava Yvette quando vi passava accanto. Era in ogni stampa incorniciata appesa alle pareti, in ogni ornamento e soprammobile, dai piatti Spode, i piattini Wedgewood e le statuette di porcellana, fino al mattarello di vetro che teneva in un cassetto della cucina. Persino lo zerbino aveva la sua impronta. In quella casa Yvette non poteva che essere sua figlia, la prodiga tornata dopo dieci anni di assenza.

Sua madre, Leah, si stava chinando per raggiungere l'armadietto sotto il lavandino. Le sue natiche sporgevano come panini dal fondo dei pantaloni blu opaco che indossava in casa. Sentendo Yvette entrare in cucina, si voltò e si sollevò in tutta la sua altezza, molto più bassa di quanto Yvette ricordasse, e sorrise prima che il suo sguardo scivolasse via. Leah era invecchiata. I capelli corti e ricci, dieci anni prima una zazzera marrone nocciola, ora erano sottili e bianchi. Le lentiggini sul suo viso si erano unite, dando alla sua pelle chiara una patina sabbiosa. I suoi occhi nocciola erano ancora vigili, ma più morbidi, più rassegnati. C'era una leggera flessione della bocca. Il suo viso aveva linee, rughe e pieghe dove prima non ce n'erano. Yvette faceva fatica ad abituarsi ai cambiamenti. E c'era una lentezza nel modo in cui sua madre si muoveva. Yvette ricordava la sua energia, sempre in movimento, non proprio agile, ma abile. Si sentiva distante. E ne era rattristata. Troppi anni vissuti intensamente mentre sua madre coltivava verdure. Yvette era un'estranea per lei, ma sembrava non saperlo.

Prese una ciotola di cereali dalla credenza accanto al fornello aprì la porta della dispensa.

'Tè?'

Yvette si voltò per vedere sua madre che versava acqua bollente in una seconda tazza.

'Compileremo i moduli per l'immigrazione dopo colazione', disse Leah, dirigendosi verso la porta sul retro con un contenitore di scarti di verdura. Sua madre era la donna più pratica che Yvette avesse mai conosciuto. Aveva mandato a prendere i moduli per la residenza permanente nel momento in cui Yvette le aveva detto che sarebbe venuta.

Doveva andarsene da Bali. Era troppo angosciata per restare. Così angosciata che l'agente di viaggio di Kuta, un uomo piccolo e smagrito con un sorriso permanente e follemente largo, l'aveva portata per tutta Denpasar sul suo scooter per aiutarla a ottenere il visto per le vacanze e il biglietto di sola andata per Sydney.

Yvette andò al tavolo da pranzo con la sua colazione, sedendosi con le spalle al sole. Sfogliò il modulo. Voleva ottenere la residenza attraverso la porta posteriore bloccata. Pensava di essere idonea nella categoria del ricongiungimento familiare. Lesse le istruzioni e scoprì che non lo era. Suo padre era ancora in Inghilterra. Non lo vedeva da anni e non aveva intenzione di farlo, ma era un genitore di sangue.

Sua madre tornò dentro e la raggiunse. Yvette le passò il modulo e la guardò sfogliare le pagine, scrutando le istruzioni, con le labbra serrate.

‘Forse c'è una scappatoia’, mormorò.

Una scappatoia che avvantaggia un rifugiato? Nel sistema di regole draconiane del Dipartimento dell'Immigrazione e della Protezione delle Frontiere? Impossibile. Inoltre, non poteva certo affermare che se fosse tornata a Malta la sua vita sarebbe stata in pericolo. Che quando Carlos aveva allungato la mano sul tavolo di quel ristorante a Bali e le aveva tirato i capelli, il suo scatto di frustrazione avesse costituito un atto di persecuzione o di tortura. Yvette stava cercando rifugio dal naufragio della sua vita.

Leah sfogliò di nuovo le pagine. 'Potrebbero esserci motivi umanitari o di compassione.

‘Mamma, io non...' Smise di parlare. Entrambe sapevano che non c'era un briciolo di compassione nelle ossa istituzionali del Dipartimento dell'Immigrazione.

Si scolò la tazza e riportò le sue cose per la colazione in cucina, poi attraversò il soggiorno e guardò fuori dalla finestra. Una lunga ciocca di nebbia andava alla deriva nella vallata, scivolando tra un banco di eucalipti rossi.

Leah la osservava attentamente. 'Dovrai sposarti', disse con tono deciso, come se nel tempo che Yvette aveva impiegato per andare e tornare dalla cucina avesse concepito la soluzione.

‘‘Sposarmi?’

‘È l'unico modo’.

'Non potrei', disse con enfasi, scioccata dal fatto che sua madre potesse anche solo considerare l’idea. Non era l'inganno che la preoccupava. C'era una parte di lei, quella romantica e sciocca, convinta che il matrimonio dovesse essere un contratto fondato sull'amore, non sulla convenienza.

Senza un'altra parola, Yvette compilò il modulo e lo infilò in una busta insieme a una vaga speranza di un miracolo e alle relative pagine fotocopiate del suo passaporto britannico - il visto per le vacanze, la pagina con la foto del suo viso con il suo sorriso di legno e gli occhi marroni tormentati. Sapeva di essere molto più bella di così.

Ci sarebbero voluti mesi prima di conoscere il risultato. Nel frattempo, aveva bisogno di un lavoro. Per quello, Leah le disse che aveva bisogno di un numero di identificazione fiscale. Anche per il più umile dei lavori occasionali.

'L'ufficio postale avrà il modulo', disse lei. 'Ti accompagno in città?'.

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