La Congrega
La Congrega - Estratto del libro
Prologo
Mentre creavo i personaggi che incontrerete in questa fittizia città mineraria, la mia mente veniva continuamente riportata indietro alla mia giovinezza nell’Inghilterra degli anni ’70, quando la moda dei pantaloni a zampa d’elefante e dei colletti ampi stava prendendo piede insieme alla musica da discoteca. Era un periodo di cambiamenti: le automobili e le televisioni cominciavano a diventare abbordabili anche per i ceti medi, la libertà di espressione veniva incoraggiata in tutte le sue forme, le case venivano acquistate invece che affittate e i cibi preconfezionati andavano a ruba.
Ho deciso di ambientare questo romanzo nel 1975, un anno rivoluzionario per i minatori inglesi: fu proprio in quell’anno infatti che il governo concesse loro un aumento di paga del 35%, per conformare i loro salari a quelli del resto della classe lavoratrice. Gli incidenti nelle miniere diminuivano a vista d’occhio grazie alle nuove leggi sulla sicurezza sul posto di lavoro e la disoccupazione non era una minaccia incombente. Un forte senso di euforia e spirito di gruppo cominciò a dilagare per tutta la nazione.
Fu un anno di celebrazioni: una giovanissima Margaret Thatcher, figlia di un fruttivendolo, divenne la prima donna leader di un partito politico mostrandoalle sue sorelle di tutto il mondo che con la determinazione e il sudore della fronte anche loro avrebbero potuto ottenere qualunque risultato. Le donne cominciarono dunque ad inseguire la carriera che avevano sempre sognato piuttosto che segregarsi in casa e nacque una nuova generazione di attivisti animalisti, pacifisti e favorevoli alla libertà di espressione in tutte le sue forme. Il Paese attraversò, ovviamente, anche momenti difficili: mi riferisco ai bombardamenti da parte dell’Esercito Repubblicano Irlandese, che provocarono troppe vittime innocenti e portarono con sé un senso di paura generale che si diffuse in tutto il territorio inglese, specialmente nelle grandi città. Nulla, però, riuscì ad impedire alla popolazione di festeggiare il compleanno della regina, la notte di Guy Fawkes del 5 novembre, Halloween e tutti gli altri eventi religiosi e non.
Nel creare i miei personaggi mi sono sforzata di tornare con la mente a quel periodo, affidandomi anche alle vecchie fotografie per rispolverare le acconciature e le mode del momento, i luoghi che visitammo e soprattutto le canzoni che sono rimaste nella storia e che hanno reso gli anni ’70 il periodo storico perfetto in cui crescere. Mi ricordo dei matrimoni e dei battesimi a cui mi invitarono, in cui le donne indossavano cappelli a tesa larga e gli uomini scarpe con la zeppa.
Gli uomini e le donne di tutto il Paese emanavano un orgoglio tutto nuovo persino per le loro abitazioni: dipingevano le pareti di colori brillanti, falciavano il prato, si arrampicavano sulle scale a pioli per lavare i vetri delle finestre fino a farli luccicare alla luce del sole… perché, sì, negli anni ’70 avevamo anche giorni di sole, nonostante la triste reputazione inglese per il clima piovoso. Avevamo estati lunghe, notti fresche ed inverni così freddi che ci svegliavamo al mattino ricoperti di neve così alta che i nostri padri si sentivano quasi in dovere di abbozzare dei prototipi di slittini fai da te per scivolare giù lungo le colline imbiancate. Erano proprio quelli i giorni che ricordo con affetto.
Capitolo Uno – Il Prete
Archie Matthews se ne stava seduto a guardare fuori dal finestrino; il cielo soleggiato d’inverno aveva lasciato il posto ad una spessa, grigia cappa di smog che pesava sulle colline come un lenzuolo lercio. Strofinò il vetro appannato con la manica del suo cappotto di lana rimpiangendo amaramente di non aver portato con sé un fiaschetto di tè per il viaggio. I suoi tramezzini con formaggio e sottaceti giacevano abbandonati e ancora avvolti nella pellicola trasparente sul tavolino divisorio che lo separava dal passeggero sedutogli davanti, che li occhieggiava con l’acquolina in bocca. Archie li spinse verso di lui usando un solo dito.
«Faccia pure» sospirò, «Io non li mangio.»
L’altro uomo esitò per un secondo soltanto prima di strappare via il cellophane e affondare i denti nel pane molle. Archie scosse la testa e tornò ad osservare il paesaggio fuori: sprazzi di vita emergevano dai piccoli villaggi, dai pascoli di pecore e dalle fattorie sparse qua e là, ma della città mineraria in cui si stava dirigendo non si vedeva la minima traccia. Il trambusto del treno in movimento gli aveva fatto venire la nausea, per cui estrasse una mentina da un sacchettino che teneva nella tasca del cappotto e se la fece scivolare tra le labbra con un movimento così rapido da risultare quasi impercettibile. Ormai mancava soltanto mezz’ora a destinazione, ma quella consapevolezza lo lasciò tutt’altro che sollevato: una strana sensazione di timore si fece largo nel suo petto, una sensazione a cui stava fastidiosamente cominciando ad abituarsi.
Quando il treno arrestò la corsa con uno strattone, Archie si sporse a controllare se il nome scritto sul cartello al binario fosse lo stesso che aveva letto nella lettera che gli avevano inviato. Sfortunatamente, era proprio quello. Si diresse rapidamente verso il ripiano portabagagli e con uno scatto repentino raccolse le valigie dal punto in cui le aveva lasciate nelle ultime quattro ore; avvertì una fitta alla schiena, un dolore ricorrente che non si decideva ad abbandonarlo, ma il suo orgoglio gli impedì di svelare agli altri passeggeri anche la minima smorfia di sofferenza.
La porta del vagone venne aperta da un facchino in abiti eleganti; Archie scese sul marciapiede di fronte e si diede un’occhiata intorno. La stazione era piuttosto confortevole: c’era un piccolo caffè, una biglietteria funzionante, una sala d’aspetto, bagni, una stanza in cui lasciare i bagagli e tutti gli altri servizi di cui avrebbe potuto aver bisogno il viaggiatore moderno di quei tempi. Si soffermò un’altra volta ad osservare il nome della città, scritto in caratteri spessi su un cartello bianco e nero affisso al muro di mattoni rossi che circondava la stazione. Fu in quel momento che notò per la prima volta uno strato di polvere di carbone.
«Reverendo Matthews?» chiamò una voce, «Sono qui per accompagnarla in città.»
Archie si voltò portandosi istintivamente una mano al collare bianco della sua tunica, domandandosi per quanto tempo sarebbe rimasto pulito in una città fuligginosa come quella.
Un uomo alto e magro avvolto in un cappotto pesante con tanto di cappello a tesa larga gli si avvicinò sorridendo come se conoscesse qualche bizzarro segreto su di lui; indossava una spessa sciarpa marrone arrotolata stretta sotto il mento che dava l’impressione che il suo collo fosse lungo il doppio del normale. Dimostrava poco più di cinquant’anni e aspirava pesantemente da una sigaretta che gli pendeva tra le labbra.
«Martin Fry» si presentò, «Piacere di conoscerla, padre.»
Archie appoggiò con attenzione una delle valigie per terra e gli porse la mano: «Piacere mio, signor Fry.»
«Ah, mi chiami Martin, la prego» replicò l’altro sorridendo, chinandosi per prendere il manici del bagaglio e sollevarlo. «Accidenti! Che cosa ci tiene qui dentro, i pensili della cucina?»
Archie aprì la bocca per rispondere, ma il signor Fry si voltò e cominciò a camminare senza attendere la sua risposta; aveva le braccia così lunghe che la valigia quasi sfiorava il marciapiede. «La macchina è qui vicino, venga con me.»
Archie si affrettò a seguire quell’uomo così sorridente in un parcheggio limitrofo in cui spiccavano parecchie automobili allineate lungo una staccionata. Tossì quando prese la prima vera boccata d’aria e la polvere di carbone gli entrò nei polmoni scombussolandogli le viscere come non gli era mai successo prima.
«Già. Ci si abituerà in men che non si dica.» commentò Martin Fry. Aprì il portabagagli di una Ford Cortina verde brillante dal tettuccio di vinile nero e aggiunse: «Metta qui la valigia.»
Archie eseguì gli ordini e aspettò che l’altro aprisse anche la porta del passeggero; una volta entrato in macchina non poté fare a meno di stupirsi della brillantezza dell’abitacolo: il cruscotto, i comandi, i tappetini e persino il vano portapacchi erano immacolati. Annusò l’odore di un lucidante per veicoli e si chiese se il signor Martin Fry fosse ossessionato dalla pulizia anche in casa sua.
«Bene, bene. Adesso la porto in canonica» annunciò l’uomo con un sorriso, «Liz le ha riempito la dispensa e mentre parliamo le sta preparando il pranzo.»
«Liz?» indagò Archie, domandandosi per quale accidenti di motivo la sua nuova casa fosse già abitata.
«Liz è mia moglie» spiegò Martin Fry, «La mia signora sarà la sua governante.»
«Ho una governante?»
«Per l’amor del cielo, il suo vescovo non gliel’ha detto?» borbottò quello in risposta.
L’automobile sfrecciava lungo le vie della cittadina e Archie Matthews si ritrovò ad artigliare la stoffa del sedile: non voleva ammetterlo con il suo simpatico guidatore, ma stava vagamente temendo per la sua vita. Il veicolo si arrestò brusco di fronte ad un semaforo rosso e il conducente si voltò verso di lui per fare conversazione: «Allora, padre, viene da molto lontano?»
Era una domanda piuttosto diretta che lo fece sentire a disagio; il parroco serrò le labbra alla ricerca di una risposta adatta e infine disse solo: «Quattro ore… dal nord.»
Martin Fry annuì, un occhio sulla luce ormai gialla del semaforo e l’altro fisso sulla figura di Archie. «È un bel posto per vivere, questo» commentò, «Con tanti lavoratori onesti.»
«Ottimo» replicò lui seguendo con gli occhi le sagome dei cittadini che attraversavano la strada al semaforo. «E frequentano tutti la parrocchia?»
Martin Fry pigiò l’acceleratore nel momento esatto in cui scattò il verde, un largo sorriso che gli increspava il volto gioviale. «Diciamo così,» ridacchiò, «avrà un bel daffare qui.»
Archie non riuscì a trovare un commento adatto per quella risposta e scelse di rimanere in silenzio, aggrappato al suo sedile, mentre l’uomo accanto a lui chiacchierava amabilmente senza dare l’apparenza di aver bisogno di un interlocutore. Martin Fry era un uomo davvero ospitale e mentre conduceva l’auto su e giù per le stradine della città gli mostrò sorridendo tutti i luoghi di maggiore interesse; nonostante gli avrebbe senza dubbio fatto comodo in futuro ricordare dove si trovassero lo studio del dottore, la biblioteca, il supermercato e la piazza principale, Archie rimase concentrato sulla sua destinazione, in cui sperava di poter rimediare un buon bagno caldo. Ripensò con un’ondata di nostalgia all’ultima abitazione in cui aveva soggiornato, una canonica non molto ampia ma dotata di tutti i comfort in cui aveva vissuto quasi in completo isolamento, e sperò che la sua nuova casa fosse per lo meno altrettanto accogliente.
Oltrepassarono un viale molto largo ai cui lati erano distintamente visibili dei tunnel sotterranei scavati con ogni probabilità per accedere alle miniere di carbone.
«La vede la cima di quella collina, laggiù?» stava chiedendo Martin Fry, distogliendolo dai suoi pensieri. «È lì che siamo diretti.»
Archie riusciva già a scorgere la guglia della chiesa e il vasto cimitero oltre l’edificio. Aveva un aspetto davvero inquietante.
«Capisco» mormorò, «Sembra molto grande.»
Man mano che si avvicinavano all’edificio il parroco poté confermare i suoi sospetti: la chiesa era di vaste dimensioni, senza dubbio risalente al periodo normanno, con la torre alta e squadrata e garguglie ad adornare le pareti principali. Archie notò che c’erano due ingressi quando l’automobile oltrepassò il cancello principale e scese lungo una stradina che portava ad una porta più piccola incastonata tra due alti tassi.
«Siamo arrivati» annunciò il signor Fry interrompendo ancora una volta i pensieri del parroco, «Benvenuto nella sua nuova casa, padre.»
Archie era stato così assorbito dall’immagine della chiesa e delle sue mastodontiche dimensioni da non fare caso ad un altro cancelletto di legno sul lato opposto dell’edificio; Martin Fry fece manovra con l’auto per parcheggiare mostrando ciò che vi si ergeva alle spalle: una enorme costruzione in pietra grigia che, a giudicare dall’espressione sul volto del parroco, non corrispondeva affatto alle sue aspettative.
«Mi occupo io delle valigie. Lei prenda confidenza con il posto.» si offrì, lasciando ad Archie il tempo per uscire dalla macchina.
Una volta fuori, il nuovo parroco si avvicinò al cofano del veicolo e si fermò per ammirare l’edificio, senza parole: la canonica doveva essere enorme, con almeno sette stanze o forse anche di più, e dal gran numero di finestre disposte ordinatamente sulla facciata dell’edificio Archie immaginò che avrebbe patito il freddo come un orfanello abbandonato. Incupito al solo pensiero, chinò la testa per esaminarsi le mani che stavano come previsto cominciando a farsi bluastre.
«Morirà di freddo lì fuori, padre.» chiamò una voce femminile dalla canonica, «Venga dentro.»
Archie Matthews obbedì e caracollò verso la sua nuova abitazione calpestando il selciato di sassolini, facendo il suo ingresso nell’atrio dalle pareti scure. Non riusciva a smettere di chiedersi cosa ci facesse lì, in quel luogo, con quelle persone…
«Piacere di conoscerla, reverendo Matthews» esclamò la donna, «Sono Elizabeth Fry.»
«Salve, signora Fry» borbottò lui a disagio, «Il vescovo non mi aveva avvertito di aver provveduto a… ehm… dell’aiuto.»
La donna tirò bruscamente su col naso ed assunse una posa rigida, come se fosse pronta a prendere il comando della situazione, procedendo poi a spiegare le sue mansioni: «Lavoro qui da trent’anni. Ho lavato, pulito e cucinato per gli ultimi due parroci e nessuno si è mai lamentato del mio operato. Sarò qui tutti i giorni dalle nove fino alle quattro, tranne la domenica, ovviamente. Ah, due sabati al mese devo lasciarla un po’ prima per andare a far visita a mia sorella. Sono sicura che non sarà un problema, non è vero, padre?»
Archie scosse la testa e fece qualche passo avanti. «Nessun problema, signora Fry.»
L’ingresso principale era così ampio che sembrava occupasse l’edificio intero; il pavimento di parquet lo percorreva da parte a parte, conducendo ad un corridoio apparentemente molto lungo sulla sinistra e ad una larga scala in legno di quercia sulla destra che scompariva al piano di sotto, dove Archie immaginava fossero collocate le camere. Il parroco trattenne il respiro di fronte a quello spazio immenso. «E lei dove alloggia, signora Fry?»
«Nella villetta proprio dall’altra parte della strada» rispose lei indicando in una direzione qualsiasi mentre richiudeva il pesante portone di legno alle sue spalle. «Per qualunque cosa, siamo qui vicino.»
Archie si lasciò scappare un sospiro di sollievo che non sfuggì alla governante, soprattutto perché venne seguito da un evidente rilassarsi della sua postura e da un sorriso sornione che comparve all’istante sul suo viso. Non era sollevato dalla presenza di vicini nel breve raggio, quanto dalla consapevolezza che avrebbe potuto trascorrere le sue notti in tranquillità lontano da occhi curiosi: più isolata era la sua vita, meglio sarebbe stato per tutti.
La signora Fry lo precedeva lungo il corridoio, aprendo porte su porte e spiegandogli di che stanze si trattasse. Archie sentì all’improvviso un rumore sordo provenire dal piano di sopra e alzò la testa, allarmato, fin quando non realizzò con un certo imbarazzo che doveva trattarsi di Martin che portava di sopra i suoi bagagli. Alla fine del corridoio la governante svoltò a sinistra rivelando un’ampia e moderna cucina dotata di pensili ed elettrodomestici di marca; un lungo tavolo in legno di faggio troneggiava al centro della stanza sormontato da un paio di quotidiani e un grazioso bricco a fiori dal quale spuntavano dei ramoscelli di cinorrodo, donando alla cucina un aspetto familiare ed accogliente.
Archie si sfilò il cappotto appesantito dalla fitta nebbia a cui era stato esposto poco prima e lo appoggiò sullo schienale di una sedia per far sì che si asciugasse. Finalmente si trovava in una stanza abbastanza illuminata per riuscire a scorgere i tratti salienti della signora Fry.
«Le preparo una bella tazza di tè» stava dicendo lei, armeggiando con le stoviglie e il bollitore, «Sono certa che andremo perfettamente d’accordo.»
«Ma certo» borbottò Archie osservandola aggirarsi per la stanza, «Sì, il tè è un’ottima idea.»
La signora Fry dimostrava poco più di cinquant’anni, quindi doveva avere pressappoco l’età di suo marito e di Archie stesso; era poco più bassa di lui, il che la rendeva una donna piuttosto alta e in forma. Gli anni erano stati evidentemente molto gentili con lei, dato che mostrava pochissimi segni dell’avanzare del tempo, sebbene tutti quegli anni trascorsi in cucina le avevano forse regalato qualche centimetro di fianchi in più del dovuto. Indossava dei pantaloni aderenti in poliestere marrone che si allargavano leggermente alle caviglie, abbinati ad un cardigan lavorato a maglia sotto il quale si intravedeva un maglioncino a collo alto color crema. Archie si domandò per un secondo se la coppia avesse figli, ma la curiosità morì dopo pochi istanti e non si preoccupò di chiedere.
«Latte e zucchero, reverendo?»
Archie scosse la testa: «Soltanto una goccia di latte, grazie, signora Fry.»
Soltanto in quel momento si accorse che il lungo viaggio lo aveva in effetti stancato molto e si lasciò sprofondare su una delle sedie intorno al tavolo. Ma più di un po’ di riposo, ciò che desiderava maggiormente era rimanere da solo.
«Quando vuole tornare a casa, signora Fry, vada pure» borbottò quindi soffocando uno sbadiglio, «Non si preoccupi per me.»
«Vuole che le porti della zuppa calda per cena?» propose lei con gentilezza, «Ho cucinato lo stufato di coniglio.»
«No, la ringrazio.»
La signora Fry sollevò un piatto dal bancone, indicandoglielo con un cenno del capo; era coperto da un altro piatto identico, rovesciato, e quando la donna lo sollevò il reverendo scorse all’interno diversi tramezzini.
«Oh» disse Archie ripensando istintivamente ai panini che aveva abbandonato tra le grinfie di quello sconosciuto in treno, «Non doveva disturbarsi.»
«Ma si figuri. Sono qui per questo.» ribatté sorridendo Elizabeth Fry, «Vuole che le porti il tè e i tramezzini nel salottino?»
Archie annuì, troppo stanco per replicare e allo stesso tempo troppo sopraffatto dalla gentilezza di quella donna per rifiutare la sua offerta. Ripensò per un breve istante alla sua ultima abitazione e al continuo ficcanasare della sua donna delle pulizie, che si era sempre rifiutata di cucinare per lui, si limitava a pulire soltanto le superfici impossibili da ignorare e tendeva a sbirciare e commentare le carte private che teneva nel suo studio. La signora Fry sembrava invece troppo perfetta per essere vera. Archie, in ogni caso, era un uomo che si adattava facilmente e dubitava che avrebbe avuto bisogno della sua nuova governante per mansioni che non riguardassero la pulizia di quella enorme canonica.
Elizabeth Fry lo guidò indietro lungo il corridoio fino al salotto serio e formale e Archie non poté evitare di sentirsi come uno scolaro che veniva trascinato nell’ufficio del preside. Era stata una giornata piuttosto surreale.
«Se non ha bisogno di nient’altro, allora, io andrei.» mormorò dunque la signora Fry, «Cerchi di riposare un po’.»
«Di sicuro anche noi ci vedremo domani, padre» si inserì nel discorso Martin Fry, dal corridoio. «Le sue valigie sono di sopra.»
«Grazie» replicò Archie ad alta voce, accomodandosi in una poltrona e sentendo la solita fitta nei reni mentre si chinava, «Buonanotte.»
Archie si svegliò parecchie ore dopo. Fece guizzare gli occhi per la stanza alla ricerca di qualcosa di familiare, tentando di abituarsi all’oscurità che lo circondava, ma ovviamente non riconobbe nulla. Un minuscolo spicchio di luna faceva capolino dalla finestra e gli permise di riconoscere altre due poltroncine ed una libreria. Da qualche parte alle spalle del divanetto in cui si era addormentato doveva esserci un grosso pendolo che produceva un ticchettio forte e fastidioso; Archie si chiese infatti come avesse fatto a dormire con tutto quel frastuono.
Riacquistando pian piano il controllo dei suoi arti avvertì improvvisamente un certo peso sulle sue cosce, un peso che di certo non era stato lì quando si era addormentato. Portò lentamente una mano nel punto in cui immaginava avrebbe scoperto la natura di quel peso, e proprio quando le sue dita incontrarono qualcosa Archie avvertì il familiare ronzio di un gatto che faceva le fusa. Senza spostare la mano con cui aveva toccato l’animale, si sporse sulla sinistra e riuscì a tentoni ad accendere una lampada da tavolo che illuminò la stanza intera.
Abbassò lo sguardo: un paio d’occhi grandi e verdi lo fissava incuriosito, incastonato nel corpo nero del gatto più grande che avesse mai visto. «Ehilà» sussurrò Archie, «E tu che ci fai qui?»
Il gatto sbadigliò apertamente e si stiracchiò le zampette sulle sue gambe, mostrando di non avere la minima intenzione di muoversi di lì a breve. Archie lo sollevò con cautela portando entrambe le braccia sotto lo stomaco caldo e morbido dell’animale, poi lo posò sul pavimento e si alzò stiracchiandosi a sua volta, cercando di risvegliare i suoi arti indolenziti. Il gatto non gli tolse gli occhi di dosso.
«Vieni» gli sorrise il parroco, «Andiamo a vedere se riusciamo a trovare qualcosa da mangiare.»
Raccolse il piattino con la tazza di tè ormai freddo e il piatto con i tramezzini che la signora Fry aveva poggiato sul tavolino, poi aprì la porta del salotto e si incamminò lungo il corridoio stando attento a non inciampare sul gatto; era immerso nell’oscurità e gli ci vollero un paio di passi circospetti raso parete per trovare un interruttore della luce, necessaria per arrivare fino alla cucina. Il grosso gatto trotterellava tranquillo davanti a lui, aprendogli la strada.
Dopo aver depositato la tazza di tè freddo nel lavandino, Archie ispezionò i tramezzini e ne estrasse diverse fette di prosciutto con cui nutrì il gatto, che, deliziato da quello spuntino inaspettato, avvolse il suo corpo peloso intorno alla gamba del reverendo e lo ringraziò con dei soffusi miagolii. Una volta nutrito il felino Archie si dedicò finalmente ai suoi bisogni. Diede un’occhiata al suo orologio: mezzanotte. Di sicuro si sarebbe preparato una bella tazza di qualcosa di caldo, dato che erano ormai passate otto ore dal suo ultimo tè. Aveva davvero dormito così tanto? Non si sentiva però particolarmente in forma neanche dopo quel pisolino ristoratore e realizzò che il suo corpo doveva essere stato ad un passo dal crollo quando finalmente si era concesso quel meritato riposo.
C’era una credenza molto ampia in un angolo ed Archie le rivolse la sua attenzione; sperava con tutto il cuore che la signora Fry fosse stata così gentile da provvedere almeno ai generi di prima necessità. Aprì una delle ante ed esaminò gli scaffali, pronto ad intercettare il minimo brontolio di interesse da parte del suo stomaco per uno dei cibi lì stipati, e infine trovò ciò che lo avrebbe sostenuto fino all’ora di colazione: un barattolo di cremoso e gustoso dolce di riso.
Il parroco rovistò frettolosamente all’interno di un cassetto alla ricerca di un apriscatole, tirò via la pellicola che si frapponeva tra lui e il suo spuntino e finalmente vi immerse un cucchiaino. Era freddo ma dolce e sembrò calmare i crampi del suo stomaco; Archie continuò a leccare via la crema dal cucchiaino finché ebbe svuotato il barattolo. Schioccò le labbra soddisfatto e si avvicinò al bollitore per preparare il tè, poi fece per buttare la confezione vuota nel cestino. I grandi occhi verdi del gatto non si erano persi nemmeno uno dei suoi movimenti; il felino era ora placidamente sdraiato su una sedia ed ammiccava al barattolo vuoto nella sua mano. «Che c’è?» ridacchiò il reverendo Matthews, «Ne vuoi un po’?»
Il gatto non si mosse ma si leccò il musetto, intrigato. Archie fece scorrere l’indice lungo le pareti della confezione, raccogliendo sul dito tutta la crema che riusciva a racimolare, poi si chinò verso l’animale e si lasciò leccare l’indice con avidità fin quando non se lo ritrovò pulitissimo.
«Ho come l’impressione che io e te andremo molto d’accordo» sorrise al gatto.
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