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Colui Che Viene (I Western Di Reuben Cole Libro 1) - Stuart G. Yates

Colui Che Viene (I Western Di Reuben Cole Libro 1) - Stuart G. Yates

Traduzione di Luisa Ercolano

Colui Che Viene (I Western Di Reuben Cole Libro 1) - Stuart G. Yates

Estratto del libro

Reuben sentì un rumore che lo svegliò durante la notte e pensò che potesse essere il vento che faceva sbattere la porta rotta del giardino, che non si chiudeva mai bene e che sbatteva in continuazione. Girandosi, cercò di ignorarlo ma, quando lo sentì di nuovo, si alzò a sedere di scatto, i sensi tesi, l’oscurità che premeva su di lui come una cosa viva. Mentre aspettava, teso come una molla, si rese conto di un dettaglio importantissimo: quella notte non c’era vento. Nemmeno un alito.

Rimase immobile per un bel pò di tempo, la bocca socchiusa, il cuore che gli batteva nelle orecchie. La grande casa, costruita dal padre circa cinquant’anni prima quando quel pezzo di terra veniva chiamato il selvaggio West, sembrò improvvisamente ostile, aliena. Era entrato qualcuno, avevano violato la sua privacy. Si chiese chi potesse essere. Era il 1905. I fuorilegge non c’erano più. Erano morti, sepolti o dimenticati. I fili del telegrafo ronzavano, le bestie vagavano per la pianura senza paura di predatori selvaggi e aveva persino sentito parlare di un carro senza cavalli che procedeva lungo Main Street. Qualcuno diceva che era un’invenzione tedesca. Reuben Cole non era molto sicuro di dove fosse la Germania. Il mondo moderno per lui era un mistero.

Spostò le coperte e aspettò, le gambe nude dal ginocchio in giù, la camicia da notte era sottile e gli venivano i brividi. La notte era fredda. Fredda e senza amici. Reuben non ne aveva molti, di amici. Era un solitario, non solo, come si affrettava a dire a chiunque fosse interessato – non molte persone – ma il sentiero che aveva scelto lo allontanava da qualsiasi compagnia e a lui andava bene così. Non doveva rispondere a nessuno. Si alzava quando voleva, andava a dormire quando voleva, scorreggiava e…

Eccolo di nuovo. Rumore di passi, senza ombra di dubbio.

Reuben rimase in allerta, cercando di non farsi gelare il cervello. Aveva ucciso degli uomini, ma molto tempo prima, lì fuori dove le domande e le risposte erano più chiare e semplici, a differenza di dov’era in quel momento, solo in un nascondiglio che si era creato da sé.

Sapeva che avrebbe dovuto affrontare l’intruso. Un ladro, un opportunista. Reuben non aveva idea di quanto valesse quello che c’era in casa, a parte… Strinse le palpebre. Il vecchio quadro che il padre aveva comprato da quel vecchiaccio a Parigi, in Francia. L’artista era morto da anni e i suoi quadri, soprattutto quello grande con le ninfee, costavano un bel pò. Quello appeso in sala da pranzo probabilmente valeva più dell’intera casa.

Reuben aprì il cassetto del comodino facendo attenzione a non fare rumore e vi mise la mano, che si strinse intorno al familiare calcio d’acero della sua Colt Cavalry. La prese, controllò delicatamente che fosse carica e si alzò.

Si ricompose, respirando dalla bocca, gli occhi fissi sulla porta della camera da letto. La luce grigia dell’alba stava appena cominciando a trovare la propria strada nella notte ma comunque gli occhi di Reuben erano abituati al buio.

Fece un passo verso la porta.

Si sentì un botto fortissimo al piano di sotto, così forte che Reuben quasi saltò. Diamine, cosa poteva essere stato?

Passi che schiacciavano vetri rotti.

Sapeva cos’era. Quel vecchio coso cinese che papà aveva portato con sé da uno dei suoi tanti viaggi all’estero. Ting o Ying o roba del genere. Vecchio, comunque. Era così grosso che ci si poteva piantare una quercia e avere ancora spazio per un olmo.

Qualcuno, al piano di sotto, zoppicava, il suono era inconfondibile. Chiunque fosse doveva essere finito con il ginocchio contro il tavolino su cui si trovava il vaso e Reuben immaginò che l’intruso si fosse afferrato il ginocchio ferito con entrambe le mani e soffocando imprecazioni.

Quell’incidente fu decisivo.

Aprì la porta con forza, dimenticandosi di non fare rumore. Scese i gradini due alla volta e si gettò nell’ingresso, dove vide due uomini, uno che spariva verso la porta sul retro e l’altro chino che si stringeva il ginocchio. Questi si voltò all’arrivo di Cole. Divenne bianco come la cenere, un grido silenzioso che gli usciva dalla bocca aperta. Cole lo colpì alla tempia con la Colt più forte di quanto avesse voluto e fece una smorfia quando sentì il rumore dell’osso che si rompeva, forte come uno sparo.

“Peebie? Tutto bene?”

Dalla sala da pranzo arrivò il proprietario della voce. Aveva la pancia grossa e la testa piccola. In mano, qualcosa di simile a un machete. Reuben gli sparò alla spalla sinistra, facendogli fare una piroetta aggraziata come quella di una ballerina. “Oh no, aiuto,” riuscì a gracchiare, “ha ucciso Peebie!”

L’omone arretrò prima ancora di aver registrato lo shock del colpo di pistola. Quando si sarebbe reso conto di essere stato colpito, si sarebbe bloccato e sarebbe rimasto impietrito come uno di quegli alberi fossilizzati in Arizona di cui Cole aveva letto qualcosa. Il ferito barcollò in sala da pranzo, superò la porta e cadde con forza sul pavimento, ma riuscì a rimettersi in piedi. Reuben lo seguì ma aveva a malapena fatto un passo quando una stretta forte come una morsa gli si chiuse sulla caviglia. Abbassò gli occhi.

La luce dell’alba, che conquistava lentamente ma inesorabilmente l’oscurità, immergeva il primo intruso in una luce inquietante e innaturale. A bocca aperta, i denti bianchi digrignati contro quel che restava dello zigomo, gorgogliò, “Ci vedremo all’inferno…”

Cercare di toglierselo di dosso si rivelò inutile, per cui Reuben sparò a quel teschio ghignante e corse in sala da pranzo per inseguire l’altro.

Qualcosa di duro e pesante come l’incudine di un fabbro lo colpì dietro la testa, facendolo volare in avanti in una voragine di oscurità.

Era svenuto prima ancora di colpire il parquet.


Togliendosi gli stivali, Sterling Roose entrò a passo pesante nell’ufficio con pochi mobili, ignorò tutto quello che lo circondava, andò direttamente al bricco del caffè e ci sbirciò dentro.

“Non sei molto attento.”

Roose si voltò di scatto, la mano pronta ad afferrare il revolver, e si bloccò prima di riuscire a toglierlo dalla fondina, soprattutto perché era un nuovo modello di Remington della polizia con una canna di quattordici centimetri. Roose non aveva mai prestato molta attenzione a quel dettaglio fino a quel momento. L’ultima volta che aveva puntato la pistola per rabbia era stato quasi vent’anni prima in quella sera indimenticabile quando lui e Reuben Cole avevano schierato cinque banditi messicani nella strada principale. Quella, però, non era quella sera calda e asciutta. Era una mattina calda e asciutta e lui era più vecchio e lento. Inoltre, l’uomo seduto alla sua scrivania aveva una Smith and Wesson di grosso calibro puntata in modo infallibile contro lo stomaco di Roose. Esalò a lungo e lentamente e si raddrizzò. “Va bene. Hai ragione, straniero, adesso mi dici perché sei nel mio ufficio?”

“La porta era aperta.”

“Non è una risposta.”

“Vero.” L’uomo sorrise e Roose colse l’occasione per studiarlo. Di certo era stato a lungo all’esterno, il viso scurito dal sole, la barba di tre o quattro giorni non gli copriva del tutto la mascella, la bocca sottile. Occhi del colore del ghiaccio brillavano sotto sopracciglia folte e non era giovane. Linee profonde gli segnavano le guance e intorno agli occhi. Sembrava un individuo indurito, uno avvezzo a usare la pistola che aveva in mano, una mano infilata in guanti di capretto consunti e sporchi, come il resto dei suoi abiti, della polvere che invadeva tutto in città. “Sono qui per parlarti di Maddie.”

“Oh.”

“Già… oh. Adesso togliti quella fondina e siediti molto lentamente. Ho alcune cose in testa che devi sentire.”

“Non so nemmeno chi sei.”

“Beh, questa è una delle cose di cui possiamo parlare.” Agitò appena la pistola. “La fondina… molto lentamente.”

Da quel momento tutto sembrò finire nel caos. La porta si aprì violentemente, quasi saltando dai cardini, e Mathias Thurst, il giovane vice di Roose, entrò. Con indosso solo i mutandoni macchiati di sudore, Thurst, come il suo capo, all’inizio non vide la figura tutta angoli dello straniero seduto dietro la scrivania dello sceriffo. Con le braccia che si agitavano come le pale di un mulino diroccato, entrò con il cinturone su una spalla, il cappello appeso alla gola. Aveva un solo stivale, quello sinistro lo teneva in mano.

“Sceriffo, vi prego, dovete venire in fretta,” cominciò, le parole che gli uscivano dalla bocca come olio. “È la signora Samuels, è venuta come una pazza con quel suo carretto e dice a tutti che ha…” Lasciò la frase in sospeso quando vide lo straniero e, nello specifico, la Smith and Wesson che adesso puntava su di lui.

Roose colse l’opportunità, prese la paletta di ghisa per il carbone con cui riempiva la stufa e, con tutta la forza che riuscì a raccogliere, la sbatté con una certa soddisfazione contro la mascella dello straniero.

Con uno strillo, lo straniero si toccò la guancia destra e cadde dalla sedia. Crollando a terra, la pistola che scivolava sul pavimento fino ai piedi di Thurst, gemette e si agitò. Thurst, nel mentre, si abbassò e raccolse la Smith and Wesson. “Non era nemmeno carica, Sceriffo.”

Senza ascoltarlo, Roose andò agilmente dietro la scrivania e abbatté la paletta due o tre volte sulla testa dello straniero. ‘”Maiale.”,’ sibilò. Soddisfatto che lo straniero non avrebbe causato altri problemi, lo Sceriffo si alzò con il fiatone e scoccò un’occhiataccia al suo giovane vice. “Cosa stai blaterando, Thurst?”

A Thurst servì un momento per rispondere, concentrato a studiare il corpo insanguinato e inerte dello straniero.

Il Cacciatore (I Western Di Reuben Cole Libro 2) - Stuart G. Yates

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Sussurri Spettrali - Joseph Mulak

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