Il Gioco Della Corsa
Il Gioco Della Corsa - Estratto del libro
Capitolo 1
Le undici e cinque.
Il turno di Rachel sarebbe dovuto finire tre ore prima. Infilò con violenza il cartellino nel marcatempo. Niente. Gli diede un calcio, poi un altro finché la macchinetta si sbloccò timbrando la scheda e convalidando l’uscita. Lo spogliatoio dell’ospedale era stranamente tranquillo. Un’infermiera stava timbrando il cartellino in uscita, due dottori in entrata. Nessuno parlava con nessuno – non era quel tipo di posto. Afferrò il cappotto consunto dall’armadietto e lo indossò sopra il camice – l’unica barriera tra lei e quella spietata sera di ottobre. Attraversò la sala d’aspetto del pronto soccorso con gli occhi puntati sull’uscita. Era fondamentale ignorare la disperazione. Dopo tre ore in più oltre le dodici del tuo turno non avevi altra scelta che fare finta che non ti importasse. Superare le madri che ti offrono i propri figli malati come se tu potessi imporre le mani su di loro e salvarli. Superare gli operai che sanguinano sul pavimento. Aprire la porta ed uscire. Andare a casa. Dovevi farlo. Tra sei ore sarebbe ricominciato tutto da capo.
La prima sberla di aria fresca ridiede vita al suo corpo indolenzito. La seconda la ributtò quasi dentro l’ospedale. Si strinse nel cappotto ma il vento gelido riusciva ancora a intrufolarsi attraverso il tessuto sottile e le cuciture allentate. Novembre stava arrivando, e in fretta. Allungò il passo cercando di seminare l’inverno.
Passò veloce davanti alle rovine scheletriche di un’altra banca crollata, un cimelio dei giorni precedenti al tracollo dell’economia e alla discesa all’inferno del Paese. Nell’edificio abbandonato adesso alloggiavano coloro che erano finiti in mezzo alla strada: quelli troppo vecchi, quelli troppo giovani, i deboli, gli stupidi. I poliziotti sarebbero arrivati presto, li avrebbero evacuati, spingendoli da un’oscurità all’altra fino all’alba o alla morte, quale di queste fosse arrivata prima. Ma per il momento sedevano raggruppati intorno a stufe ardenti, immergendosi in silenzio in quel calore come se potessero portarsi dentro quell’unica fiamma per tutto l’inverno.Non fecero caso a Rachel. Anche il più malvagio degli uomini appostato dietro ai portoni, in attesa di creature indifese dal passo veloce, non faceva caso al dottore mentre tornava a casa. Nessuno la vedeva mai. Almeno fino a quel momento.
Tre, due, uno.
Le undici e nove. Tempismo perfetto.
Sentì che qualcuno la stava osservando. Sempre dallo stesso posto, di fronte alla terza finestra della vecchia banca. Era nascosto, non nella banca ma vicino. Così vicino che poteva quasi percepire il suo fiato sul collo. Si era già imbattuta in aggressioni, erano tempi disperati e le persone si prendevano quello che potevano quando potevano. C’erano stati anche stupri, cinque questa settimana, almeno cinque che avevano avuto bisogno di cure mediche. Era una città pericolosa e peggiorava. Ma questo era diverso. Lui – per qualche motivo sapeva che si trattava di un lui – non faceva nulla. Era stato lì per una settimana, mai tradendo la sua posizione o le sue intenzioni, ma poteva sentirlo e più lui aspettava più la faceva disperare. Sapeva dove viveva, doveva lavorava, conosceva la strada per l’ufficio cambi. E la scortava a casa tutte le notti senza mai mostrarsi. Non aveva senso. E ciò rendeva tutto molto più preoccupante.
Non era tipo da farsi intimidire facilmente; i dottori del St. Mary non potevano permetterselo. Non importava che fosse alta solo poco più di un metro e cinquanta e che desse l’impressione di poter essere abbattuta da una folata di vento più forte delle altre; era comunque in grado di prendersi cura di se stessa. Ma quel tallonamento la spaventava. Nottate insonni a chiedersi chi fosse, cosa volesse, sempre che lui lo sapesse.
In città non aveva dove andare, nessun posto dove nascondersi, fuggire. Se voleva mangiare doveva lavorare, e lui l’avrebbe aspettata fuori dall’ospedale – osservandola, senza fare nulla. Era stanca, stanca di tutto, ma c’era qualcosa che poteva fare. Poteva farlo smettere, in un modo o nell’altro. Qualunque cosa lui avesse in mente, qualunque cosa volesse farle, avrebbe dovuto guardarla negli occhi mentre la faceva, perché era stanca di fuggire.
Si arrestò e si voltò.
La strada era deserta. Ma poteva ancora sentirlo lì. Gli edifici proiettavano la loro oscurità sulla strada e gli schizzi sibilanti di luce artificiale potevano poco per rivelare il pericolo notturno sotto di loro. C’era rumore. C’era sempre rumore; voci, veicoli, il ronzio costante dell’elettricità che lottava per raggiungere i margini della città. Accadevano tante cose ma se ne vedevano così poche – un posto perfetto per nascondersi.
“Va bene allora, pervertito”, sussurrò tra sé e sé. “Dove ti nascondi?”
La strada si tese come la corda di un funambolo. Con cautela, i suoi piedi si diressero lentamente di nuovo verso la banca diroccata. Esaminò attentamente gli edifici intorno, le finestre degli ultimi piani, i portoni al piano terra, in attesa che lui le balzasse addosso. Un passo, due passi. Guarda. Niente. Tornò sui propri passi verso l’edificio successivo. Poi quello dopo. Era così vicino – perché non poteva vederlo?
“Mi vuoi? Beh eccomi, pazzoide. Vieni a prendermi!”
Un urlo provenne dalla banca. Qualcuno che correva. Un uomo. Le si contrasse lo stomaco. Si preparò all’impatto. La spintonò e corse via. Non era lui.
Si voltò, cercando di dare un senso a ciò che stava vedendo. Poi un respiro caldo le sfiorò il collo.
“Giù!”
Il mondo diventò bianco.
Con la faccia premuta sulla strada fredda e sudicia, Rachel attendeva. La terra sotto di lei tremava, ma questo era tutto. Si incupì, in attesa di qualcosa, cercando di capire cosa ci faceva sdraiata dentro una pozzanghera puzzolente al lato della strada. Le mani di qualcuno la stavano rimettendo in piedi. Si voltò verso la banca, ma era scomparsa. Al suo posto, le fiamme lambivano un cumulo di macerie. Alcuni si allontanavano barcollando dall’edificio distrutto, soffocando e tossendo, altri con gli occhi grandi come le proprie bocche. Ma non c’era un suono, solo un muoversi stupito e calore crescente. Rachel osservava, più curiosa che spaventata. Quel panico silenzioso era affascinante. Fece per muoversi e il rumore le fece esplodere i timpani. Lo shock la fece ricadere a terra. Urla, grida di aiuto e sirene arrivavano da ogni direzione.
Il suolo tremò ancora e l’edificio esplose un altro fuoco d’artificio sulla strada. Sentì il suo corpo venire strattonato. Ma la gente stava correndo in aiuto. Erano ancora vivi. Era un dottore, c’era bisogno di lei.
“Posso aiutarli”, urlò tentando di divincolarsi dalla stretta dell’uomo che la tratteneva.
“È una bomba esca.” La voce era così fredda che la fece gelare. Guardò lo sconosciuto e ingoiò i grumi di ghiaia che le si erano piantati in fondo alla gola. Aveva desiderato incontrarlo faccia a faccia ma non in quel modo.
Lui la fissava con lo sguardo vuoto. I morti e i moribondi non significavano nulla per lui. Era lì per lei e per lei soltanto. La sua mano le afferrava ancora le spalle, trattenendola. La mano che l’aveva portata in salvo. Aveva mille domande che le passavano per la testa ma riuscì a farne solo una.
“Una bomba esca?”
Una piccola esplosione per attirare la polizia, si affrettò a ricordare. Seguita dalla bomba più grande che li avrebbe fatti a pezzi. Si voltò verso il posto dove avrebbe dovuto esserci la banca. Altre persone si davano da fare per aiutare, estraendo braccia e gambe di chi era rimasto sotto le macerie. Con un po’ di fortuna sarebbero seguiti i corpi.
“Dobbiamo avvisare…” L’uomo era scomparso.
Le sirene divennero più forti.
Rachel fece un profondo respiro. Dopo tre ore in più oltre le dodici del tuo turno non hai altra scelta che fare finta che non ti importi.
Iniziò a correre.
Capitolo 2
Charlie si svegliò di colpo sulla sedia, il volto fradicio di sudore. Si pulì la fronte con la manica. Il dolore gli salì lungo la schiena, ricordandogli dell’incubo. Il sogno ricorrente del giorno in cui andò tutto storto. Si frugò nelle tasche finché trovò le pillole. L’effetto fu istantaneo e in breve arrivò il sollievo. Si stropicciò gli occhi e tornò alla telecamera puntata verso l’appartamento del palazzo di fronte.
Le luci erano accese, le tende aperte. Qualcuno era entrato in casa e lui se l’era perso. Il suo unico lavoro e l’aveva mandato a puttane. Diede un calcio alla stampella appoggiata sulla sedia e la osservò scivolare lungo il pavimento lontano dalla sua portata. Contrasse le dita e desiderò che la stampella tornasse da lui. Ma non accadde nulla.
“Merda.”
Si alzò dalla sedia troppo velocemente e la gamba destra cedette, facendogli rovesciare la telecamera – che era solo l’equipaggiamento più costoso che possedevano. La lente si incrinò.
“Merda, merda, merda.” Urlò dal pavimento. Le ondate di dolore iniziarono a placarsi. Rabbia e vergogna combatterono la loro solita battaglia, mentre la voce dentro la sua testa gli diceva di smetterla subito. E, come sempre, un persistente stimolo alla vescica riportò tutto nella giusta prospettiva. Aveva sopportato vagonate di umiliazioni e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era che lo trovassero seduto nel suo stesso piscio.
Non era così che sarebbe dovuta andare la sua vita. Charlie Smith era stato una leggenda. Era un Comunicatore, nato con poteri incredibili e un’arroganza che rendeva possibile ogni cosa. Col suo vecchio se stesso ben saldo in mente, appoggiò la testa sul pavimento e si concentrò di nuovo sulla stampella. Le sue dita si allungarono, cercando di raggiungere il manico di plastica sulla cima. Coi suoi poteri riusciva ancora a percepirne il peso e a sentirla, ma muoverla richiedeva uno sforzo contro il quale il suo cervello faceva resistenza. Avrebbe dovuto essere semplice, ma i suoi poteri telecinetici lo stavano tradendo. La telecamera oscillò, si voltò sul lato e poi si fermò completamente. Lo sforzo era spossante e imbarazzante.
Lentamente, perché al momento le cose andavano fatte lentamente, si trascinò fino alla stampella e, grazie a questa, riuscì ad andare verso il bagno. Era una piccola vittoria, ma era sufficiente per tirargli su il morale. Durò solo finché non si vide riflesso dello specchio rotto attaccato sopra il lavandino. Una volta aveva carisma. Fuggiva dai guai con un sorriso. Adesso era fortunato se la gente non attraversava la strada per evitarlo. Capelli ingrigiti, spenti occhi rossi, pelle cerea. Aveva trentatré anni ma ne dimostrava cinquanta; si sentiva come un pensionato. Il grande Comunicatore Charlie Smith – ridotto così. Le cose erano cambiate così radicalmente solo in un anno. Un anno, due mesi e otto giorni.
La maniglia della porta d’ingresso girò. Charlie si diede una sistemata ai vestiti. Tutto era normale, tutto andava bene. Ce la poteva fare, certo che ce la poteva fare. Provò il sorriso allo specchio e uscì dal bagno mentre suo fratello aprì la porta con un calcio e la richiuse sempre con un calcio, per essere chiaro.
“Va tutto bene?” chiese Charlie.
Il fratellino aveva uno sguardo così cupo che sembrava che qualcuno glielo avesse intagliato nel cranio. Chiaramente niente andava bene. Ma con John era impossibile dire quanto fosse incasinata, da uno a dieci, la situazione. Charlie aveva visto quella stessa espressione quando era andato a rotoli un lavoro e l’aveva vista identica quando qualcuno gli aveva versato del caffè sul vestito.
“Cos’è successo?”
John distolse lo sguardo. Era arrabbiato con se stesso – e non era buon segno. Charlie tentò coraggiosamente un passo con la stampella verso di lui. C’erano quattro anni di differenza tra i due. E non era mai stata così manifesta.
Charlie gli fece segno di sedersi al tavolo pieghevole della sala da pranzo. John aveva quasi sempre tutto sotto controllo. Era raro che commettesse errori o facesse valutazioni sbagliate. E quando accadeva si sentiva in colpa per giorni. Aveva bisogno di Charlie, un professionista nel mandare le cose a puttane, per mettere tutto nella giusta prospettiva.
“Mi ha visto” confessò John.
“Ti ha visto?!” Disse Charlie incredulo. “Sei una creatura della notte, come diavolo ha fatto a vederti? Cristo, il più delle volte non ti vedo neppure arrivare anche se so che stai arrivando”.
John serrò e distese i pugni. Stava in piedi per allentare la tensione e iniziò a camminare con passo regolare: passi brevi, veloci, le scarpe di pelle che cigolavano contro il pavimento di linoleum.
“C’è stata un’esplosione. Qualche bastardo ha lanciato una bomba esca proprio accanto a lei. Ho dovuto tirarla via prima che il maledetto palazzo le crollasse addosso.”
Charlie si pizzicò alla radice del naso. Quando suo fratello faceva un casino riusciva lo stesso a combinare qualcosa di buono. “Vuoi dire che l’hai salvata?”
John gli lanciò un’occhiataccia. “Non è questo il punto.”
Charlie roteò gli occhi. Solo John si sarebbe innervosito per aver salvato la vita del loro bersaglio.“Ascolta, pensi che ci pagherebbe se scoprisse che l’abbiamo lasciata morire?” disse Charlie.
“Non lo sappiamo. Non abbiamo idea del motivo per cui la vuole!”
Era vero, non lo sapevano e quel fatto cominciava a irritarlo. I famigerati fratelli Smith conoscevano sempre le carte sul tavolo ancora prima che fossero giocate. Charlie pianificava il suo lavoro come se stesse scrivendo una sceneggiatura. Nessuno aveva mai dimenticato una battuta. O almeno così era un anno fa. Un anno, due mesi e otto giorni. Da allora il lavoro era diminuito. Erano stati fortunati a occuparsi del caso di Rachel Aaron e solo perché l’anziano mentore di Charlie aveva messo una buona parola per loro. Ma la fortuna e anche il supporto di un vecchio prete non rendevano in alcun modo l’ignoto meno problematico. Erano completamente spaesati ed erano finiti in una secca.
“Magari la vuole morta”, affermò John.
“Se la volesse morta ci avrebbe chiesto di ucciderla,” replicò Charlie. “E se la volesse morta non avrebbe chiamato un prete per vedere se conosceva qualcuno che potesse trovarla. Vuole solo trovarla John, tutto qui.”
“Non mi piace,” reagì John. “Questo lavoro ha qualcosa che non mi piace”.
“Lo so.” Charlie fece un lungo respiro, la frase che stava per pronunciare non avrebbe dovuto renderlo nervoso ma lo fece. “Ecco perché sto per fare un po’ di lavoro sul campo da solo.”
John non mostrava mai sorpresa, o felicità, o altro che una leggera impazienza, ma quando qualcosa lo faceva contento il suo sopracciglio destro si alzava leggermente. Mentre accadeva, Charlie sentiva un senso di colpa che prima non avrebbe mai ammesso.
“Credevo tu fossi un ostacolo.”lo punzecchiò John.
“Si tratta di sorveglianza in un ospedale John, chi è in grado di mimetizzarsi meglio, io o tu?”
Il sopracciglio di John si arroccò più in alto sulla sua fronte. Era stato paziente con Charlie, più paziente di quanto Charlie sentiva di meritare, aspettando che suo fratello tornasse in pista invece che lavorare da solo. John non aveva perso lo smalto. Non aveva problemi con le scale. Poteva bere quanto voleva. Dormire quando necessario. Le sue abilità non erano state intaccate. Charlie li stava frenando entrambi, ma sapeva che John si aggrappava ancora alla speranza che un giorno Charlie si sarebbe rimesso in sesto e le cose sarebbero tornate alla normalità. E Charlie aveva troppo bisogno di lui per confessargli che non sarebbe mai accaduto.
“Ne sei sicuro?” chiese John.
“Abbiamo bisogno di soldi.”
“E se invece lui volesse ucciderla, o peggio?”
Nonostante ciò che aveva detto Charlie, quella rimaneva una possibilità. A questo giro non stavano lavorando per i buoni e la ragazza era stata difficile da trovare, anche con i poteri di Charlie. Non sarebbe finita bene per lei e forse era per questo che Charlie non aveva fatto troppe domande.
“Ci servono i soldi,” lo tranquillizzò Charlie. “Deve essere questa la nostra priorità.” Non era lui a parlare. Certo, aveva fatto cose discutibili, anche brutte, ma aveva una morale e adesso dentro la sua testa qualcosa urlava che era tutto sbagliato.
John annuì, e Charlie fu sollevato nel vedere che John condivideva la sua opinione. “Bene, ma se deve essere fatto lo farò io.”
“No, non hai bisogno di averla sulla coscienza. Lo farò io.”
John gli lanciò un’occhiata. “Stiamo davvero litigando su chi la può uccidere?”
“Chi la deve, uccidere,” lo corresse Charlie. “Quando dici ‘chi la può uccidere’ lo fai sembrare una specie di premio. E no, non litigheremo perché lo farò io.” Non doveva dirlo perché quello che era successo era colpa sua – era un fatto.
John depose le armi. “Okay, ma io posso sbarazzarmi del corpo.”
Charlie si incupì. “Hai detto ‘posso’?”
Suo fratello fece un sorrisetto. Aveva un senso dell’ironia tutto suo.
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