L'oscurità imminente - Susan-Alia Terry
Traduzione di Luisa Ercolano
L'oscurità imminente - Susan-Alia Terry
Estratto del libro
“Quelli non li metti”.
Trattenendo un sospiro, Kai abbassò lo sguardo e vide i suoi vestiti cambiare. Invece di pantaloni, camicia e stivali neri, ora aveva un abito su misura color cachi e crema – con i mocassini. Odiava i mocassini. Si voltò, aspettando che il suo amante entrasse nel foyer.
Lucifero, con i capelli bianchi sciolti lungo le spalle e una gatta nera adottata di recente fra le braccia, entrò nel foyer e fissò i critici occhi argento su di lui. Essendo uno che indossava sempre qualche tonalità di bianco – e chi lo sapeva che ce n’erano così tante? – Lucifero aveva molto da ridire su cosa indossava Kai. In effetti, Lucifero lo vestiva con tale dedicato fervore che qualcuno, meno comprensivo, l’avrebbe definito ossessionato. Era per quello che Kai aveva cercato di sgattaiolare fuori di casa prima che Lucifero lo vedesse.
“Andiamo, Luc, non è pratico e lo sai”, disse Te, raggiungendoli nel foyer e trasformando i vestiti di Kai in quelli che aveva prima. “Come ti salta in mente di mandarlo in ricognizione e a fare un recupero con i mocassini e un abito color cachi? Non lo capirò mai”.
“Grazie”, gli disse Kai, sorridendo.
“Vivo con dei Filistei”, disse Lucifero, con una finta smorfia. “Il minimo che tu possa fare è indossare seta”.
Detto fatto: Kai ora indossava una camicia nera di seta grezza; tuttavia si rifiutò di ammettere che la sensazione di seta sulla pelle gli piaceva. “Avete finito voi due?” li apostrofò, ma anziché sembrare esasperato, finì col dare l’idea di un’affettuosa accettazione.
Te rise. Aveva la pelle scura, la testa pelata lucida, un orecchino d’oro e denti bianchissimi; quanto ai suoi occhi argento, Kai trovava difficile ricordare momenti in cui non brillassero di puro divertimento. Sempre vestito in modo impeccabile, Te condivideva con Lucifero la predilezione per i vestiti eleganti e costosi; a differenza di Lucifero, però, non aveva mai trovato un colore che non gli piacesse o non gli stesse bene. L’abito che indossava era un gessato rosso, completo di bombetta, farfallino e ghette abbinati.
Lucifero rivolse loro il suo sguardo brevettato e oltremodo sfruttato, per poi andarsene con il naso per aria nel salotto adiacente. Si distese sul divano: a vedere il suo lungo corpo snello non si poteva che restarne impressionati. La gatta imitò la sua posizione distendendosi sopra di lui. Anche se stavano insieme da più di settecento anni, Kai non si stancava mai di guardare colui che considerava il suo compagno. Ne era infinitamente affascinato, lo amava e gli era devoto.
Te entrò in salotto dietro Lucifero, si sedette su una poltrona d’antiquariato e mise i piedi sul poggiapiedi abbinato. Era sempre una sorpresa che i mobili vecchi e delicati di quella casa non protestassero quando Te li usava per sedersi. D’altro canto, le sue fattezze fisiche erano ingannevoli. Vero, era alto almeno un metro e novantotto e aveva una stazza poderosa, ma la sua personalità, come quella di Lucifero, lo faceva sembrare molto più grosso.
“Che c’è stasera?” chiese Te, quando si accese la smart TV da sessanta pollici.
Lucifero non faceva mistero di quanto odiasse gli esseri umani. In effetti, faceva tutto il possibile per esporre quell’odio a chiunque lo ascoltasse. Ciò non significava però che non gli piacessero il cibo, i vestiti e i tantissimi aggeggi creati dagli esseri umani. Aveva riempito la casa di oggetti che lo incuriosivano, inclusa la tecnologia più recente.
“Housewives”, rispose Lucifero mentre i canali cambiavano da soli.
“È quello con Kendra?” Te afferrò una ciotola di popcorn che gli comparve in grembo. Dal nulla comparvero anche altri quattro gatti, che si sistemarono intorno ai due.
“Non la Kendra a cui stai pensando, no”.
Il grosso demone fece una smorfia e si ficcò una manciata di popcorn in bocca.
Kai si appoggiò allo stipite della porta, prendendosi un momento per godersi la sua famigliola.
“Aspetta, aspetta, torna indietro”, disse Te.
“È Rosemary’s Baby?” chiese Lucifero, tornando al canale richiesto. “Oh, sì. Me l’ero quasi perso. Bella scelta”. Alzò lo sguardo verso Kai e curvò il dito. “Andiamo, sai già che vuoi restare”.
Aveva ragione. Rosemary’s Baby era uno dei loro film preferiti. La tentazione di unirsi a loro era molto forte, ma Kai aveva un compito da svolgere. Andò all’attaccapanni accanto alla porta a prendere il suo trench di pelle.
“Devo andare”, si scusò, mettendo il trench. “Te, ti dispiacerebbe darmi un passaggio?”
Te lo guardò e sorrise. “Sei sicuro? Gregory non va da nessuna parte”.
“Sono sicuro”.
“Certo, allora. Buona caccia”.
Con un ultimo cenno di saluto, Kai sparì.
Starr Roberta Maxwell sedeva alla scrivania, immaginandosi di uccidere il suo capo con il tagliacarte o, meglio ancora, con la spillatrice, così ci sarebbe voluto più tempo. Niente era mai abbastanza per William Ford Gregory III.
“Starr, hai già faxato quei numeri a Ginevra? Perché ci stai mettendo tanto? E portami un’altra tazza di caffè. Questa è fredda”, urlò Gregory, alias lo Stronzo, attraverso la porta aperta dell’ufficio.
Andando alla porta per rispondergli – le sembrava che urlare sul posto di lavoro non fosse professionale – maledisse, per l’ennesima volta da quando era andata a lavorare lì, il suo primo nome e le aspirazioni della madre per lei quando gliel’aveva dato. Presentarsi come Roberta era stato tempo sprecato: la prima volta che si erano visti, quell’uomo conosceva già il suo nome completo e si era rifiutato di chiamarla così, scegliendo invece di modulare “Starr” in modo tale da ricordarle che lei non era una stella, né mai lo sarebbe stata.
Ripetendosi che quello era solo un lavoro temporaneo, e che, una volta che la settimana fosse finita, avrebbe potuto bruciare l’effigie del figlio di puttana, rispose in modo educato: “Ho mandato il fax venti minuti fa. Sono le due del mattino a Ginevra, per cui dubito che ci sia qualcuno a riceverlo”. Nel mentre andò alla scrivania e prese la tazza del caffè.
“Certo che ci sarà qualcuno. È per questo che li pago. Dov’è il mio caffè? Lenta e pure stupida. Cosa ti pago a fare?”
Roberta sospirò e cercò di non perdere le staffe. “Ora la metto in contatto con Mr. Prideaux e le porto subito il caffè, signore”.
Aveva cercato di far suonare il “signore” come un “vaffanculo”, ma non c’era riuscita. La sua educazione rigida le impediva di essere maleducata con il suo capo, indipendentemente da quanto lui lo fosse con lei. Corse nell’atrio dell’ufficio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare prima, il caffè o la telefonata. Era fottuta in ogni caso, per cui scelse di riempire di nuovo la tazza senza sprecarsi a rifare il caffè, ma usando il fondo della caraffa. Se non riusciva a dirgli di andarsene a fanculo, almeno poteva rovinargli il caffè. Con un sorrisetto, gli riportò la tazza in ufficio, poggiandola con cura sulla scrivania.
Di ritorno nell’atrio, fece la telefonata in Svizzera, preparandosi mentalmente a dire allo Stronzo che non aveva risposto nessuno.
La cornetta fu sollevata al terzo squillo. “Pronto?”
Roberta rilasciò la tensione. “Sì, Mr. William Ford Gregory III cerca Mr. Pierre Prideaux”.
“Sono Pierre”.
“Resti in linea, per favore”.
“Mr. Gregory, ho Mr. Prideaux in linea; le trasferisco la chiamata”.
“Pierre, figlio di puttana, come stai? Come sta la tua bella moglie? Ottimo. La tua bambina ha avuto il regalo di compleanno che le ho mandato? Le è piaciuto, vero? Bene, bene. So che è tardi: apprezzo che tu abbia risposto, lo apprezzo davvero. Ascolta, la mia segretaria dice che ti ha mandato il fax. Be’, l’hai ricevuto? Sì? Ok, allora ti dico cosa dobbiamo fare…”
Roberta chiuse silenziosamente la porta dell’ufficio di Gregory, zittendone la voce. Le bruciavano gli occhi, ma li chiuse e trattenne il fiato per non piangere. A sentire la premura e le scuse sincere nella voce del suo capo pochi secondi dopo che le aveva urlato dietro, le era venuta voglia di lasciarsi andare a una crisi di pianto. Come faceva Gregory a essere così gentile con tutti tranne che con lei?
Solo altri tre giorni, si disse. Altri tre giorni, e sarò fuori di qui.
***
Avvolto nell’ombra, Kai sedeva sul muro alto che circondava l’enorme complesso in cui viveva e lavorava Gregory. Aveva passato lì due giorni a guardare chi andava e veniva ed era impaziente di portare a termine il suo compito. Il complesso copriva almeno quaranta acri di terra a nord di New York, a circa un’ora di macchina dalla città. Il lungo viale di accesso serpeggiava attraverso la proprietà fino agli edifici principali, che erano nascosti dal fogliame. Le telecamere di sorveglianza, d’obbligo per un posto del genere, punteggiavano il paesaggio fornendo una copertura più che adeguata sull’intero complesso. C’erano guardie stazionate al cancello e – Kai lo sapeva – a un posto di blocco vicino agli edifici. Tutto sommato, le misure di sicurezza erano sorprendentemente leggere e non avrebbero posto problemi.
Il vero problema, semmai, erano i gatti. Ce n’erano ovunque: si aggiravano fra gli alberi, cacciavano, giocavano fra loro, facevano la siesta nell’erba. Kai non vedeva punti liberi dalle bestioline. Non c’era modo di avvicinarsi all’edificio senza creare trambusto. Senza dubbio, Gregory aveva previsto un attacco da parte di Te e si era preparato di conseguenza.
Un forte odore di ozono con un sottofondo di cannella gli riempì le narici: le labbra gli si sollevarono in un sorriso. “Uriele. E io che pensavo mi avessi abbandonato”.
“Attento, vampiro, a non diventare troppo sfacciato”, rispose Uriele.
“So già che non me lo permetteresti mai”.
Kai si voltò a guardare l’arcangelo per controllare di non aver passato il segno con la sua risposta. Anche se Uriele aveva preso ad accompagnarlo regolarmente in quelle missioni, Kai aveva da poco iniziato a rilassarsi in sua presenza, e i loro battibecchi lo mettevano ancora a disagio. Come al solito, Uriele non dava nessun segno di dispiacere; d’altronde, Kai non aveva idea di quale sarebbe stata la sua espressione in caso contrario.
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